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UN’ALBA DA MIA MADRE Dal balcone della mia casa, 17 marzo attorno alle sei Vito Teti
Autore:     Data: 30/04/2019  
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Data: 30/04/2014 - Anno: 20 - Numero: 1 - Pagina: 6 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

CHI PER LA PATRIA MUORI'

Letture: 1339               AUTORE: Vincenzo Squillacioti (Altri articoli dell'autore)        

“Evviva! Arrivàru!” Il primo a scorgerli è stato Lariùzzu.
Erano finalmente arrivati! Quindici chilometri d’impervio sentiero a dorso di mulo non sono
certo facili da sopportare per un Pastore di Diocesi e per un Prefetto di Provincia, adusi ad altri
mezzi di locomozione per il loro lavoro. Meno sfiniti i quattro giovani carabinieri cui era stata affidata
la delicata consegna di vigilare sull’incolumità delle due Eccellenze: i cavalli erano i migliori
in dotazione, e i militari erano stati scelti personalmente dal Colonnello comandante la Legione.
Quasi tranquillo don Tobia, il Salesiano che già tante altre volte aveva affrontato quella fatica per
portare fin lassù la Parola di Dio, sempre a dorso di una mansueta asina che era ormai diventata la
cavalcatura “di fiducia”. Raggiante il giovane Cosma, la guida “ufficiale” della tanto nobile quanto
inusuale comitiva. Abituato a doversi districare tra i boschi di quella montagna, di cui ormai
conosceva ogni anfratto, ogni scoscendimento, ogni tratto scivoloso, non poteva che toccare a lui
il delicato compito di fare da battistrada, con il suo gagliardo e fidato stallone, ai quadrupedi che
quel giorno s’avventuravano per sentieri sconosciuti.
Don Tobia aveva scoperto per caso l’esistenza di Sassoscuro tra le montagne, uno strano villaggio
fatto di povere case sparse ricadenti in tre diversi Comuni al di qua e al di là del torrente
Sasi. Vi dimoravano, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, non più di settanta
famiglie, circa cinquecento persone tra vecchi, adulti e un esercito di ragazzi e di bambini. Un
paese senza strade, senza energia elettrica, senza ufficio postale, senza medico e senza farmacia,
con un telefono pubblico molto spesso muto, ubicato in una bettola dove i montanari potevano
ubriacarsi a piacimento e comprare, su ordinazione, sigarette, fiammiferi, zucchero e caffè. Un
paese per decenni senza Scuola. Un paese senza Carabinieri e Senza Chiesa. Un paese dove il saltuario
assassinio rimaneva quasi sempre senza pubblicità e senza colpevole. Un paese in cui lo stupro
e l’incesto non erano proprio rari né venivano additati all’esecrazione generale. Un paese,
pensò il sacerdote salesiano quando vi mise piede per la prima volta, che aveva bisogno di un’opera
di trasformazione del cattolicesimo superstizioso e paganeggiante in pratica consapevole della
Parola di Dio, di razionale canalizzazione degli istinti che regolavano la vita quotidiana, di consapevolizzazione
e valorizzazione dell’agreste bontà dell’animo.
Ottenuta, non senza qualche difficoltà, l’autorizzazione dai Superiori, don Tobia si dedicò subito
ad una sua personale opera di evangelizzazione degli abitanti di Sassoscuro, recandovisi almeno
una volta al mese oltre che a Natale per far nascere il Redentore e a Pasqua per farlo risorgere
dalla morte. Così per un paio di anni, tra non poche immaginabili difficoltà, ma sempre allegro e
sorridente perché sorretto dalla fiducia in Colui del quale era Ministro fedele. Celebrava Messa
servendosi di altari improvvisati a turno nelle varie contrade; confessava i pentiti, quasi tutti di
sesso femminile; raccontava il Vangelo nelle case di chi gli apriva la porta. Ma soprattutto giocava
con i bambini, ai quali insegnava, negli intervalli le prime e più facili preghiere del cristiano.
Quando il tempo c’era e le condizioni glielo consentivano, s’improvvisava maestro elementare e
tentava di trasmettere a quei piccoli i primi rudimenti del sapere insegnando loro a leggere e a scrivere.
Ci volle tanta pazienza e tanto amore, ma i primi risultati non tardarono ad arrivare perché i
bambini sembravano aver sete di imparare. In uno dei suoi viaggi, insieme ai soliti quaderni, pennini,
inchiostro, carta assorbente, matite e gomme, portò il libro Cuore di De Amicis, tante copie
quanti erano i bambini più assidui agli incontri. All’inizio il “maestro” leggeva e gli “scolari”
ascoltavano, in un silenzio musicato dal rumore dell’acqua del Sasi quando le “lezioni” si svolgevano
sulla sponda del fiume. L’attenzione maggiore veniva riservata alla lettura del “Racconto
mensile” e di quei brani che esaltavano il coraggio e il sacrificio dei soldati italiani che avevano
lottato per l’indipendenza. Si fece così conoscenza con parole quali Italia, Risorgimento, Patria.
Lariùzzu in particolare, il più attento e il più sensibile tra quei piccoli volontari del sapere, non per-deva una lezione, e si metteva sempre accanto a don Tobia del quale non perdeva una parola, e
sembrava incantato quando si leggeva del sacrificio di bambini per amore della Patria.
Gli uomini, gli adulti maschi, non accettavano facilmente quella che in qualche modo consideravano
un’invasione di campo da parte di un prete peraltro sconosciuto. La gelosia per le proprie
mogli sorelle e concubine, e l’imbarazzo di trovarsi in parte spodestati da un intruso per giunta
improduttivo tennero quei montanari distanti da don Tobia che, però, seppe cristianamente pazientare
e intelligentemente aspettare. E i primi segnali di accettazione e di benevolenza col tempo arrivarono,
motivati soprattutto dalla scoperta, durante la celebrazione della Messa in particolare, che
i loro bambini cominciavano a saper leggere.
Una domenica don Tobia notò che a Messa gli uomini erano più numerosi del solito, ed erano più
attenti all’omelia. Non gli fu quindi difficile dedurre, e sperare, che si stava verificando una sorta di
cedimento delle posizioni intransigenti alle quali si erano arroccati sino ad allora quei duri montanari.
E pensò fosse giunto il momento che da tempo aspettava: proporre al popolo di Sassoscuro la
costruzione di una loro chiesa. Se loro avessero approvato, lui, don Tobia, li avrebbe aiutato volentieri
e con amore. E loro, un po’ tutti loro, avrebbero dovuto rimboccarsi le maniche, e ognuno avrebbe
dato il proprio contributo, ogni uomo, ogni donna, ogni ragazzo persino. Nella loro chiesa, una
volta eretta, sarebbero stati battezzati i bambini; si sarebbero celebrati i matrimoni; si sarebbe festeggiato
il Natale e poi la Pasqua. A Sassoscuro si sarebbe celebrata la Messa ogni volta che un sacerdote
avrebbe avuto la volontà e la possibilità di arrivare fin lassù. E nella loro chiesa, non essendoci
un cimitero, si sarebbero benedette e avrebbero trovato definitiva dimora i resti mortali di Elia u cannistràru,
il loro compaesano morto per la Patria sul Monte Grappa.
La risposta dei fedeli presenti, colti di sorpresa, fu immediata ed ebbe inizio da Lariùzzu, il più
vicino all’Altare nel suo abituale ruolo di chierichetto, capace ormai di servire Messa usando il
latino come se fosse stato a scuola per impararlo. Appena ritenne che don Tobia avesse finito il suo
sermone gridò “bello!”, e subito un convinto battimani di tutti i presenti, donne e uomini.
All’incontro seguito alla Messa, richiesto da don Tobia e organizzato dalle persone più rappresentative
del posto, si parlò del luogo e delle dimensioni della chiesetta, del materiale da reperire e
della manodopera necessaria, ovviamente tutta volontaria. Si cominciò subito. Gli avanzamenti dei
lavori erano programmati e verificato ogni mese, alla presenza di don Tobia il cui contributo consistette
anche in denaro là dove è stato necessario. Dopo un anno di lavoro la chiesetta era pronta.
Quel giorno il Vescovo di Squillace veniva per consacrare la Casa di Dio. E il Prefetto della
Provincia veniva a consegnare ufficialmente alla Comunità del borgo montano i pochi resti mortali
del milite Elia, l’eroe di Sassoscuro morto gloriosamente per la libertà e l’indipendenza della
Patria. Il rappresentante dello Stato parlò a quella gente come si conviene in circostanze del genere.
Parlò dei sacri confini d’Italia, dello straniero sconfitto e costretto a risalire le Alpi, del sangue
dei militari italiani che ha imporporato le rocce alpine e le acque del sacro fiume d’Italia. E
tutti zitti e attenti, anche quando non capivano. Il più attento era Lariùzzu, che non capiva, però,
tante belle parole che diceva il Vescovo quando parlava del grande amore di Gesù sino al sacrificio
della morte, e della missione cui è chiamato ogni cristiano. Né gli era chiaro tutto quanto
aveva detto il Prefetto.
A sera non riusciva a prendere sonno. Pensava e ripensava a Gesù che muore per lui sulla
Croce, e si sforzava di capire il significato delle ultime parole del Prefetto: “chi per la Patria muor
vissuto è assai”. Di una cosa, però, era certo: si sarebbe fatto prete, e la Patria sarebbe stata il suo
grande amore sino alla morte, naturalmente dopo Gesù. L’indomani ne parlò ai genitori quando si
sono ritirati dai campi, ma questi, non sapendo da che parte cominciare, ne parlarono a don Tobia
il mese successivo. Il Salesiano, ben sapendo che non poteva avviarlo all’Istituto della sua
Congregazione perché la famiglia non era nelle condizioni di pagare la retta trimestrale, presentò
il caso al Vescovo, che l’ascoltò e promise il suo sostegno.
Il primo ottobre, Lariùzzu, accompagnato dal padre scese alla marina dove presero il treno per
Squillace; fatto l’ultimo tratto su una sgangherata corriera, alle undici si apriva per il piccolo
Sassoscurese la porta del Seminario minore vescovile.
Fu un anno felice per il piccolo seminarista. Gli mancavano i genitori e i fratellini, gli mancava
la fiumara e la pesca delle trote, gli mancavano le rosse ciliegie della sua vallata, e altre cose
gli mancavano, ma aveva ciò che ormai desiderava sopra ogni cosa: la possibilità di farsi prete. Fu
lo studente modello dell’anno, anche se non evidenziava attitudini per le scienze esatte e capacità
speculative: i professori annotavano soprattutto la sua diligenza, la disponibilità e l’ubbidienza, la
passione e l’impegno nello studio della Storia Sacra e il trasporto nella pratica dei Sacramenti.
Nel corso del secondo anno di Seminario Lariùzzu si ammalò, e stette tanto male da dover essere
ricoverato in ospedale, dove rimase a lungo. All’uscita tornò in famiglia per un altrettanto lungo
periodo di convalescenza, e nella valle si disse che c’era stato un miracolo a conservare al ragazzo
la vita. Ne uscì salvo, difatti, ma piuttosto malconcio, nel fisico e nell’animo. L’adolescente perse
l’entusiasmo che lo aveva caratterizzato negli ultimi anni, diventò introverso e anche un po’ triste.
Lasciò il Seminario, ma non perdette il rapporto cordiale con don Tobia, sino a quando la salute e
l’età consentirono al Sacerdote di frequentare la “sua” valle e incontrare i “suoi” montanari.
Il giovane e laborioso ex seminarista, detto ancora Lariùzzu, divenne con gli anni un bravo boscaiolo
e provetto carbonaio. Nelle uggiose giornate invernali, quando le condizioni climatiche impedivano
il lavoro all’aperto, egli si dedicava con piacere alla lettura della vita di Santi, ma anche di libri
d’altro genere come Guerrin Meschino, Le avventure di Pinocchio, Le mille e una notte. Leggeva e
rileggeva di preferenza il libro Cuore che alimentava in lui l’amor di Patria al quale era stato iniziato
fin da bambino dalle letture di don Tobia. La Patria era ormai per lui il suo grande ideale, scavalcando
persino la figura di Gesù e della sua morte in croce, che negli anni dell’infanzia aveva avuto
il primo posto nei suoi pensieri. Appena in possesso del denaro necessario acquistò, tramite un amico
esperto in traffici commerciali, un bel fucile a doppia canna, da usare all’occorrenza come mezzo di
difesa e per cacciare tra i boschi la selvaggina di cui il territorio abbondava.
Il nostro giovanotto, adesso ribattezzato Lariu do Latìnu per via delle parole latine che spesso
ostentava, divenne in breve tempo un abile cacciatore, da fermo e al volo. Il fucile era per lui
l’amico migliore dal quale non riusciva a staccarsi, neanche quando andava alla bettola per giocare
a carte con gli amici. E la caccia, di notte e di giorno, era il passatempo preferito all’aperto,
come lo era la lettura dentro casa nelle ore di pioggia e di tempesta.
Quando, nel giugno del 1940, l’Italia entrò in guerra, Lariu do Latìnu non era ancora maggiorenne,
per cui rimase a casa in attesa che la patria, avendone bisogno, lo chiamasse al fronte per
combattere. Un mattino, dopo una notte insonne al pensiero che tanti altri giovani come lui erano
già in lidi lontani in armi, scese con la cavalla in paese e si presentò al Maresciallo dei Carabinieri
per esprimere il desiderio di partire volontario per la guerra. Il Comandante la Stazione, tra incredulità
e meraviglia, riempì con calma un modulo e lo sottopose alla firma del volontario non senza
aver caldamente raccomandato di pensarci bene prima di scrivere il proprio cognome e nome in
calce a quel foglio: Lariu firmò senza alcun tentennamento. In groppa alla sua cavalla se ne tornò
a Sassoscuro in attese della chiamata alle armi, che arrivò entro la fine del mese.
Poiché sapeva leggere e scrivere, ed anche senza grossolani errori, Lariu venne dapprima impegnato
in uffici di vari Comandi militari sul suolo italiano, dal Sud al Nord della Penisola, a seconda
delle necessità, sempre lontano dal fronte e senza dover usare le armi. Così per un paio di anni, con
sua grande amarezza perché gli era di fatto impedita la possibilità di lottare per l’amata Patria. E quando
s’imbatteva in notizie di scontri, di battaglie e di sangue che venivano dal fronte, riandava con la
mente alle parole di quel Prefetto che quel lontano giorno a Sassoscuro aveva concluso il suo discorso
declamando che “chi per la Patria muor vissuto è assai”. Non riusciva a rassegnarsi che mentre tanti
soldati soffrivano e morivano lui, Fante volontario, era esentato da ogni sacrificio nel nome dell’Italia.
Quando il conflitto si estese oltre ogni confine, e gli scontri furono continui, e il sangue scorse
a fiumare, e la morte consolidò il suo scettro, venne l’ora che anche Lariu il volontario lasciasse
le comode sedie delle caserme per correre al fronte a dare man forte ai sempre meno numerosi
soldati in armi. Fu dapprima in Sardegna e successivamente al fronte africano: sempre pronto a
versare il sangue per la patria, sempre immune dalla benché minima scalfittura. Così per oltre due
anni, tra indicibili difficoltà e disagi, tra dolore e sangue, tra tragedie e morte. Ma sempre indenne,
con il rammarico di non riuscire a dare niente di proprio alla Patria.
La guerra aveva lasciato sul campo oltre cinquanta milioni di persone, ma non il Fante volontario
Lariu do Latìnu. All’annuncio della fine del conflitto, in procinto di venire istradato con altri
fortunati verso l’Italia, e quindi verso casa, pensò che avrebbe provato vergogna da morirne se si
fosse presentato a Sassoscuro con tutt’e due le gambe, con tutt’e due le braccia, con tutt’e due le
mani, senza una sola ferita. Nella notte buia s’allontanò discretamente dai commilitoni, s’appartò
in un angolo, poggiò l’indice della mano destra sopra un legno casualmente lì accanto… e con la
baionetta nella sinistra lo tagliò netto d’un colpo.
Quando, in una splendida mattina di maggio del 1945, dopo alcuni anni di assenza e dopo alcuni
giorni di viaggio arrivò, a piedi, a Sassoscuro, abbracciò gioiosamente parenti ed amici, senza
vergogna alcuna. Ma non si vide mai più a caccia tra i boschi della valle.





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